Cultura

Andria e i suoi “gioielli” tra presente e passato

Vincenzo D'Avanzo
«La città è rimasta ferma da anni, forse da vent'anni. Se è cresciuta è cresciuta male. Ha una faccia deforme di città, ove appare chiaro che ognuno è intervenuto individualmente, non rispettando un contesto»
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Quel giorno capitammo nello stesso scompartimento della Barinord. Era il tempo in cui quel treno ci metteva un’ora da Bari ad Andria, tanto quanto bastava per conoscere persone e intessere amicizie. Io mi misi a leggere il giornale, lui, seduto di fronte a me, fu incuriosito da un titolo sulla prima pagina di quel giornale: un tesoro abbandonato. Mi chiese se potevo fargli leggere l’articolo e io senza pensarci due volte gli porsi il giornale. Alla fine nel ringraziarmi restituendo il giornale fu lui stesso a dirmi che gli sarebbe piaciuto rivedere quella chiesetta di santa Croce che l’articolo diceva essere molto antica ma abbandonata ma che lui aveva avuto l’opportunità di visitare da giovane rimanendone impressionato. Gli dissi che io la conoscevo benissimo e che da ragazzo andavo in quelle grotte a giocare a pris i libr, una specie di gioco a nascondino per il quale quelle grotte si prestavano benissimo. Fatte le presentazioni (Giuseppe si chiamava) mi offrii di accompagnarlo nella visita essendo io in grado di procurarmi le chiavi. Un codicillo aggiunse: quando sono stato in Andria l’ultima volta andai a visitare la chiesa della Madonna dell’Altomare rimasi impressionato perché i rimaneggiamenti successivi del quadro lo avevano sfigurato. Purtroppo, dissi io facendo finta di saperlo, è facile mettere mano alle opere d’arte, il risultato a volte è discutibile. Con le opere degli altri bisogna essere onesti, disse. Io chiesi quale fosse il senso della frase e lui rispose: ogni opera d’arte deve essere conservata gelosamente ed eventuali interventi di restauro devono essere affidati a mani esperte e non al primo che capita. Un affresco non è un insieme casuale di colori, ma indica una storia, uno stato d’animo, un messaggio. Un intervento improvvido ne fa un’altra cosa. Ci demmo appuntamento alla settimana successiva: io andai a prenderlo dalla stazione con la macchina ma lui non volle salirci: voleva fare due passi a piedi per rivedere Andria che egli aveva visitato da universitario conservandone un ricordo agrodolce. E lui mi disse subito senza circonlocuzioni di cortesia: ricordo di aver visto delle cose molto belle dal punto di vista storico ma abbandonate o non valorizzate. In questa settimana ho studiato, mi disse, Andria ha avuto un grande passato da ricordare ma un presente tutto da decifrare.

Io capii che non avrebbe fatto sconti e tuttavia non reagii bene alla sua affermazione e lui se ne accorse: vedi, disse, Andria ha avuto Francesco II del Balzo che è stato nel 1400 amministratore moderno molto innamorato della sua città facendo opere straordinarie: si conserva solo ciò che si ama. E voi oggi che fate? Lo tenete relegato nella chiesa di san Domenico senza che nessuno ne sappia niente. E il suo busto del Laurana? Io spero che tu me lo faccia vedere. Giuseppe, dissi, mi dispiace, io mi sono procurato le chiavi di santa Croce, per il resto non rispondo. E imboccammo corso Cavour a passo veloce. La sua testa era una trottola muovendola a destra e a manca in continuazione mentre dalla bocca uscivano suoni indecifrabili. A un certo momento approfittando dello scarso traffico mi porta al centro strada: questo è il corso, doveva essere stupendo con quelle palazzine signorili (che indicava con le mani) che lo arredavano e invece è diventato un mostro urbanistico con quelle orribili costruzioni moderne a infrangere l’armonia della strada. E mentre arrivavamo a porta Castello, guardando quel grattacielo all’angolo quasi urla: perché si sono demoliti gli antichi palazzi di Jannuzzi e di Marchio –Vaccarella e si è alzato quel palazzone dal gusto sicuramente discutibile ma per il posto dov’è segna il contrasto urtante con le vecchie costruzioni: di fronte c’è la zona antica e nobile di Andria, le mura di difesa e forse tracce del primo castello dei del Balzo. Mura dimenticate, specie il tratto all’inizio di pendio san Lorenzo (mura san Francesco) senza parlare del retro del palazzo Jannuzzi nella strada omonima. Perché a Ruvo, Terlizzi, Bitonto questo non è avvenuto? Perché? Chiesi io. Ma lui lasciò cadere.

Intanto eravamo giunti a piazza Catuma e il mio ospite sembrava inarrestabile: questo doveva essere il salotto buono della città, disse. Poi prese fiato e quasi urlando: dove erano gli architetti andriesi quando si demolivano pezzi di storia e si consentiva la costruzione di questo sgorbio, disse guardando il palazzone dell’angolo, e poi alzando la testa, e quell’altro palazzone davanti al mercato del pesce, e lo stesso mercato del pesce e per finire quello in piazza la Corte? Dov’erano le classi dirigenti? Il convento delle benedettine era cadente, azzardai io. Ma chi lo ha detto? Mi rispose. Non c’è traccia di una relazione tecnica e poi cosa impediva una ristrutturazione? Era un meraviglioso esempio di barocco pugliese. E qui l’affondo che mi fece rimanere sconcertato: Andria ha avuto la mania della distruzione, ma sai perché? Mi disse strattonandomi il braccio perché lo guardassi: perché le opere d’arte sono andate a finire nelle case private o peggio vendute a collezionisti nel nord Italia, quando è andato bene, perché a volte sono state vendute autentici capolavori a rigattieri per avere in cambio una bacinella di plastica: perché avete demolito il palazzo Jannuzzi con la maestà delle sue colonne, il palazzo dei fratelli Montenegro con le sue scale caratteristiche, il palazzo di Filippo D’Urso dirimpetto alla cattedrale? (e meno male che non accennò a Castel del Monte depredato per abbellire masserie signorili). Avete stravolto il panorama che si gustava entrando in piazza Catuma al di sopra delle case a un piano con quei tre campanili stupendi. Una incauta battuta da parte mia fece alzare il tono della voce: io non c’ero, dissi quasi a scusarmi, queste cose sono avvenute all’epoca di sindaci illuminati ancora oggi venerati. Giuseppe cominciò ad urlare per la realizzazione di quel casermone, impossibile anche dal punto di vista igienico, che in quel momento stavamo raggiungendo. Il mercato vince sulla storia, disse e concluse: essere un grande uomo non vuol dire essere anche un grande sindaco. “Andria è rimasta ferma da anni, forse da vent’anni. Se è cresciuta è cresciuta male. Ha una faccia deforme di città, ove appare chiaro che ognuno, quando è intervenuto, è intervenuto individualmente, non rispettando un contesto, ma lacerando il possibile ordito di comunità”.

Il dialogo rischiava accenti forti, per fortuna apparve all’orizzonte don Riccardo Losappio al quale mi affidai come ancora di salvezza. Feci le presentazioni e don Riccardo subito sottolineò che lui era l’ultimo dei preti presenti al miracolo della sacra Spina nel 1932. Io lo invitai a raccontare l’atmosfera di quel tempo e lui si diffuse nel racconto osservando che allora gli eventi religiosi non erano spettacolo ma devozione sincera: per fortuna che non c’era la televisione. A quel punto il mio ospite chiese di vedere la sacra Spina. Don Riccardo ci fece tornare indietro perché la cattedrale era chiusa ed entrammo dal palazzo vescovile ma fummo sfortunati: il sacerdote che aveva le chiavi era andato via, ci comunicò mortificato il sacrestano. Come non l’avete esposta alla venerazione dei fedeli? Chiese il mio ospite, una alzata di spalle fu la muta risposta del sacrista. Stranamente il mio ospite non reagì forse perché il suo sguardo fu attirato dall’atrio del palazzo vescovile. Alla fine disse: vedi, qui dentro ogni pezzo è di grande valore ma sono tutti fuori posto, essi sono nati per un altro contesto che noi non vedremo più. Salutammo don Riccardo e proseguimmo verso san Domenico. Nelle viuzze vidi che l’ospite si girava spesso indietro per guardare. Cosa c’è, chiesi io sospettoso. E lui mi fa osservare: “vedi l’armonia di queste stradine? Sembrano costruite da una sola mano. Eppure saranno intervenuti in tanti e anche in tempi successivi. Vuol dire che si studiava l’ambiente in cui si costruiva e ognuno cercava di armonizzare le nuove costruzioni alle vecchie per cui tutti gli abitanti sentivano propria non solo la casa ma anche la strada: vedi la pulizia e ascolta la vita in questo silenzio impressionante. Persino gli odori sono in comune e immagino quante volte si sono scambiate le pietanze creando di fatto una mensa fraterna”. Anche lui parlava ora sottovoce. Andria ha avuto artigiani di prim’ordine, erano chiamati anche fuori a lavorare. Ogni costruzione, anche se povera, era un gioiellino, ognuno con la sua impronta personale al punto che erano facilmente riconoscibili. Altro che periferie tutte uguali. E così entrammo nella chiesa di san Domenico, avendo incontrato casualmente don Peppino Tangaro, il parroco, che ci fece la cortesia di aprirla. Il mio ospite puntò diritto alla sacrestia tra la meraviglia nostra. Qui c’è il cuore di Andria, disse accarezzando il busto di Francesco II del Balzo del Laurana mentre don Peppino cercava di aprire il loculo del più grande duca di Andria. A quel punto l’amico si inginocchiò e stette in silenzio per una manciata di secondi. Poi alzandosi fu un fiume in piena: Andria ha avuto periodi memorabili, le tante chiese, i tre archi della cattedrale, la facciata della porta santa, il barocco in parte distrutto, il portico e la facciata del seminario, il vescovado, la villa dei vescovi alla Guardiola ecc. Molto di questo patrimonio è stato dilapidato o distrutto per ignoranza. Tanto è stata grande ieri quanto è mediocre oggi. Io amo l’Andria di ieri, avrei tanto voluto amare gli andriesi di oggi, ma essi non si accorgono di quello che hanno perso. E qui una stilettata profonda: per la ricchezza di pochi è stata distrutta la ricchezza di tanti. Io e don Peppino ci guardammo negli occhi. Lui se ne accorse e disse: non è colpa dei singoli, è la cultura di una comunità che si è appannata. Le classi dirigenti si sono distratte.

Intanto usciamo dalla chiesa. Il proprietario del bar Stella (vecchia conoscenza) ci scorge e ci invita per un caffè che accettiamo volentieri. Facemmo cenno delle nostre discussioni e lui ci diede conferma: quando mio padre aprì il bar si viveva bene, oggi facciamo fatica a tirare avanti: è tutto un mortorio. In effetti, disse il mio ospite: questa piazzetta poteva essere un bel salottino della città. Peccato.

Riprendemmo la strada verso santa Croce, ma prima di giungere all’arco di Sant’Andrea mi impose una deviazione: attraversiamo il largo Grotte (non vi racconto le espressioni amare per la distruzione di una pagina di storia, peraltro fondamentale, disse, perché qui ci fu il primo nucleo abitativo della città) e mi porta in un sottano di via Manthonè dove un operaio di falegnameria si dilettava a fare capolavori d’arte riproducendo i monumenti principali della città. Io mi meravigliai che egli lo conoscesse: ne ho sentito parlare a Bari, mi disse e comprò un quadro della Vergine finemente intarsiata. E qui si sviluppò una autentica battaglia di parole. Il mio ospite illustrava a me la bellezza del coro della cattedrale, gli intarsi della sacrestia di san Francesco e l’operaio che voleva illustrare quante volte aveva tentato di costituire il complesso bandistico della città sempre rovinato dalla indifferenza delle pubbliche autorità. Finita questa piacevole diatriba ci avviammo verso via Carmine e qui si presenta ai nostri occhi l’imponente scalinata del seminario. Questa volta sono io a sottolineare la bellezza del complesso. Ma lui pronto: questa non è l’originale. Pensa che le balaustrate che si affacciavano dal largo del seminario e che scendevano lateralmente con le scale erano formate di colonnine sagomate, intervallate da pilastrini scolpiti (nella foto si intravedono). Tutto è andato distrutto come distrutte sono andati gli affreschi del chiostro del seminario tra l’indifferenza delle autorità tutorie civili e religiose. Non me lo dire, dissi io, ero in seminario quando la furia distruttrice prese il rettore; e ricordai come nel pozzo centrale furono buttati libri di valore, pergamene e quant’altro. Il mio ospite rimase senza parole e poi aggiunse: quando ho visitato la Madonna dell’Altomare ho visto bellissimi affreschi sfigurati o coperti da mobili o confessionali. Se la gente sapesse!… disse borbottando.

E finalmente siamo a Santa Croce. Per tre ore anziché parlare io aveva parlato sempre lui. Ora è il mio terreno. In quella zona sono nato, in quelle grotte ci ho giocato. Infatti subito inizio dallo spiazzo vicino alla strada: qui c’era un tosatore di cavalli, un fabbro che li ferrava, l’orto attorno alla chiesa ecc. Ma lui mi ferma. Questo è un gioiello di straordinario valore. Se lo avessero avuto all’estero avrebbero ricavato una fortuna. Il bello poi è che di queste grotte si può realizzare un itinerario turistico: da quelle della Madonna dei Miracoli, a Cristo di Misericordia, alla Madonna dell’Altomare fino a Trimoggia. Ma sai la cosa che mi incanta, disse prendendomi sottobraccio mentre entravamo in chiesa, sono questi volti dipinti che rappresentano la storia sacra ma fanno pensare ai volti degli uomini e donne andriesi dei tempi passati, qui è la storia di questo popolo e voi che fate: lo abbandonate, consentite la speculazione edilizia fino a ridosso, lasciate che i ladri vengano a depositare la loro refurtiva (disse mentre scansavamo una bicicletta). Questo è analfabetismo culturale ed è responsabile la classe politica ma anche quella professionale: proprio quella che avrebbe dovuto formare l’opinione pubblica a custodire la propria storia e non a favorire la speculazione edilizia.

Risaliamo i pochi scalini proprio mentre un carretto di un fruttivendolo ambulante sta sversando giù gli avanzi del suo giro. Il mio amico gli si avvicina e gli chiede se ritiene che stia facendo una cosa giusta. Il giovanotto tra il dialetto e l’italiano cerca di dire che in fin dei conti trattasi di un fossato abbandonato. Il mio amico insiste: ma quella chiesa che vedi non deve essere rispettata? Ah! Mi scusi, disse il poveretto. Non lo sapevo. Avevo sentito che dovevano distruggere quei tufi per costruire un palazzo.

Un popolo che non studia il suo passato non ne è degno, disse a me l’amico. Io arrossii e quasi per farmi perdonare gli chiesi se volesse rimanere a pranzo. Ben volentieri mi rispose, ma andiamo a Trani. Un popolo che non rispetta le sue pietre non valorizza nemmeno le sue tradizioni culinarie. E mestamente ci dirigemmo in silenzio verso la macchina. Fu una lunga passeggiata fino alla stazione quasi tutta in silenzio. Solo davanti al municipio fece un commento: “mi piacerebbe che funzionari e amministratori studiassero la storia prima di prendere decisioni”. Non ci sono professori, dissi io buttandola sullo scherzo. No, disse lui, basta fare una passeggiata e accarezzare le pietre che si incontrano: non hai idea di quanto si impara. Saliti in macchina io mi diressi verso casa; quando arrivammo chiesi all’amico di scendere. Lo vidi incerto e gli dissi: io è una vita che non vado per ristoranti. Mia moglie conosce il passato e il presente della cucina andriese. E devo dire che, pur improvvisando, lo mise a tacere con uno sformato di carciofi che, vallo a indovinare, era il suo piatto preferito.

domenica 17 Settembre 2017

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onia.zagaria@libero.it
onia.zagaria@libero.it
6 anni fa

Bellissimo racconto! Condivido e sottoscrivono.

Sandro Ferri
Sandro Ferri
6 anni fa

La chiusa sdolcinata non frena le preoccupazioni per chi ama il patrimonio storico della città. Chi ci ridara il chiostro gotico di Sant'Agostino? Il chiostro di fine trecento di San Domenico abbattuto per costruirci la prima centrale elettrica! Ed oggi riscbiamondi perdere gli affreschi del chiostro di Santa Maria Vetere, come dire la storia non c'ha insegnato nulla!

Gaetano Campanale
Gaetano Campanale
6 anni fa

Abbiamo tante cose Belle da far vedere a chi ci viene a trovare ma siamo bravi solo a disprezzarle, mentre citta' che hanno poco sanno come valorizzarle.
Impariamo ad Amare e a Rispettare la nostra Citta' imparando a conoscere la nostra Storia e i nostri luoghi ad iniziare dalla nostra classe politica.