L'approfondimento

Sostituzione etnica e benaltrismo: la politica del disumano

Geremia Acri
Geremia Acri
integrazione - migrazioni
cittadini del mondo
Colpire una categoria che non ha mai realmente avuto voce per esprimersi rimane il cavallo di battaglia di un sistema malato
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La narrazione della vicenda migratoria ha assunto in Italia dei contorni che erano stati toccati probabilmente solo durante gli attentati terroristici in Francia, dove erano la pura e il sentimento di psicosi irrazionale a fare da padroni. Questo in parte per l’orientamento politico dell’attuale classe dirigente, che di certo non guarda di buon grado chi non le assomiglia, dall’altro per l’incapacità nell’affrontare una questione centrale del paese, per cui cercare scuse e qualunquismi diventa l’unica arma necessaria per uscirne puliti.

Recentemente, interrogati su come si dovesse gestire la situazione degli immigrati in Italia, il benaltrismo ha fatto il suo ritorno: da un lato le solite preoccupanti frasi sulla “sostituzione etnica” che va evitata, dall’altro frasi come “dovremmo dare priorità al lavoro femminile”. Argomentazioni tipiche di chi non sa nemmeno quale sia il problema, forse troppo preoccupato nell’aizzare la folla e cercare le giuste scuse per non cambiar nulla. La prima, in particolare, nasconde un allarmante messaggio colmo di persecuzione culturale, inversamente proporzionale al progresso umanitario che dovremmo vivere.

La sostituzione etnica così definita sarebbe la conseguenza rischiosa della poca natalità in Italia. Quindi, in sintesi, fate figli perché altrimenti gli immigrati ci faranno perdere la nostra identità. Ecco un tipico esempio di distogliere l’attenzione dai problemi reali del paese. La denatalità è dovuta a tante cause: dalla crisi economica perenne alle nuove generazioni sempre più povere, un luogo dove già è quasi impossibile provvedere per se stessi, i propri averi e il proprio lavoro, per chi riesce ancora a trovarne uno stabile. Tuttavia, risolvere queste problematiche va ben al di là delle capacità di un governo inconcludente, che purtroppo ha dei precedenti nella storia politica recente, fatta solo di reclami dall’opposizione e perpetui compromessi quando si comanda.

Scagliarsi contro una minoranza inerme ed indifesa è il tipico trucco del potere più becero: ammettere di non saper trovare una soluzione risulterebbe mediaticamente troppo debole, per una politica che segue i connotati dello spettacolo: perciò, colpire una categoria che non ha mai realmente avuto voce per esprimersi rimane il cavallo di battaglia di un sistema malato.

Eppure, da anni i dati dimostrano costantemente il contrario. Se si volesse analizzare la questione da un punto di vista meramente economico, il che comunque nasconde già tanto di disumano, sarebbe sufficiente per capire come il fenomeno migratorio rappresenti una risorsa da poter sfruttare per la crescita dell’intero tessuto economico-sociale: è previsto infatti un calo sensibile del debito nei prossimi decenni che va di pari passo con l’aumento del flusso migratorio. Non solo; in tempi di crisi nera per le future pensioni e per i conti critici, nell’arrivo di nuove risorse c’è una possibilità di risanamento maggiore, soprattutto se si riuscisse ad inserire nuove figure nel mercato del lavoro, in continuo mutamento.

Quest’analisi, per quanto corretta e dimostrata da anni, è comunque errata da un punto di vista etico. È, in sintesi, fare il gioco del nemico, ridurre il tutto a merce di scambio e dimostrare che la merce è valida. C’è molto più di questo: l’elemento umano diventa fondamentale, perché l’uomo è sempre stato ed è tutt’ora un animale sociale, nonostante i tempi in cui l’odio sembra sormontare. La naturale propensione nello stare insieme si unisce a concetti come quelli di educazione, integrazione, convivenza, comunità. E invece, in chi dovrebbe guidare questo sentimento comune ci sono tutti i tentativi di divisione, laddove ci si arricchirebbe tutti di talenti e storie da raccontare. Si tratta di persone che, purtroppo, se accettate, sono costrette a fare i lavori che non vogliamo fare più, sotto contratti non regolari, con paghe da fame ma senza occasione di replica, figlie di un sistema della legittimazione allo schiavismo moderno.

L’ipocrisia di un tale trattamento sta nel fatto, tra le altre motivazioni, che abbiamo la memoria fin troppo corta. Anche noi, in diverse epoche storiche come anche oggi, siamo stati immigrati per altri popoli, ma è più semplice voltare le spalle alle ovvietà. In questi giorni, per esempio, si sono ricordati e celebrati i 150 anni dell’emigrazione italiana in Brasile su iniziativa dell’Ambasciata del Brasile a Roma. L’emigrazione italiana verso questo paese iniziò il 21 febbraio del 1874 quando la nave “La Sofia” con quasi 400 italiani a bordo ancorò nel porto di Vittoria.

“La diaspora italiana ha costituito una preziosa eredità nelle arti, nella cultura, nell’economia e costituisce una componente vivace nella formazione del popolo e dell’identità brasiliana”, ha sottolineato l’ambasciatore brasiliano in Italia, Renato Mosca.

Purtroppo sono ancora troppo pochi gli esempi di un reale inserimento nel nostro tessuto quotidiano, forse perché ci è stato inculcato l’illogico timore della condivisione. Non si perderebbe nulla nel concedersi, ne guadagneremmo tutti. L’amore porta amore, l’umano anche. Nessuna sostituzione, né invasione: solo tutti i colori dell’arcobaleno che potremmo formare.

venerdì 23 Febbraio 2024

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