L'approfondimento

Tra il suicidio e la vita. A chi appartiene la mia vita?

Saverio Costantino e Marilù Liso
depressione
Una lettura dei nostri tempi. Dialogo con il dott. Stefano Callipo Presidente Nazionale Osservatorio Violenza e Suicidio, Psicologo Clinico, Giuridico e Psicoterapeuta
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La diffusione dei disturbi mentali sta assumendo proporzioni allarmanti. Il fenomeno colpisce in particolare i giovani, che rappresentano la prima linea di questa emergenza. Ogni anno nel mondo si registrano circa 46mila suicidi tra gli adolescenti, e durante i soli tre anni di pandemia abbiamo assistito a un incremento del 30% delle diagnosi di disturbi psichici. In Italia, i sintomi depressivi nella popolazione sono addirittura quintuplicati, evidenziando la gravità della situazione e la necessità di un intervento tempestivo e mirato. Ecco perché abbiamo voluto affrontare un tema che spesso desta molti timori, che sembra un tabù e forse lo è davvero.

Fa paura parlare della morte, fa paura passarci accanto, da’ un peso diverso alla vita. Gesti estremi che vedono sempre come segni prodromici numerosi pensieri, di autosvalutazione, di buio totale, fino ad arrivare ad una vera e propria programmazione che possa mettere pace ad un tormento interiore. Per darne una lettura autorevole, abbiamo pensato di coinvolgere con alcune domande il dott. Stefano Callipo, Presidente Nazionale Osservatorio Violenza e Suicidio, Psicologo Clinico, Giuridico e Psicoterapeuta.

Dott. Callipo del suicidio si deve parlare o bisogna trovare modalità alternative? «Del suicidio bisogna parlarne e ancor meglio parlarne in modo chiaro e diretto. Spesso si ritiene che parlare del suicidio sia sbagliato perché può indurre le persone a rischio a suicidarsi. In realtà non esistono evidenze scientifiche che lo dimostrino, anzi viceversa si è visto che parlare in modo chiaro del suicidio può aiutare chi ne è coinvolto. Bisogna inoltre combattere il tabù sul suicidio, un vero e proprio stigma sociale. In Italia è talmente forte da porre maggiormente a rischio chi ne è coinvolto anche indirettamente, come, per fare un esempio, un genitore di un ragazzo suicidato».

Ci dia indicazioni sui dati in suo possesso, relativi magari alle cause  principali. «Non esistono dati certi. Tuttavia, la scelta del metodo per noi professionisti è molto importante perché può darci indicazioni utili sul grado di intenzionalità suicidaria. Ma ciò su cui porre il focus attentivo sono i segnali prodromici al gesto estremo: gran parte delle persone lanciano dei campanelli di allarme nelle fasi immediatamente precedenti al gesto suicidario».

Soprattutto in età giovanile, le famiglie, le istituzioni scolastiche cosa possono fare? «Le famiglie devono creare un canale comunicativo “emotivo” con i figli, facendo domande del tipo “come stai, come ti senti, cosa provi rispetto a ciò che racconti, ecc.”,  importante stare con loro sin da piccoli, condividendo momenti in famiglia di gioco, di dialogo attivo, e persino i social, spiegando loro pericoli e trappole. I genitori inoltre non devono delegare compiti educativi che spettano a loro alle scuole. Le scuole per conto loro devono educare, non istruire solo. E spesso non è facile. Inoltre la scuola costituisce l’humus ideale in cui tutte le sintomatologie comportamentali relative ai pensieri o gesti suicidari si manifestano. La scuola dovrebbe puntare molto sulla prevenzione primaria, nell’individuazione dei fattori di rischio per gestirli. In tal senso è fondamentale la figura dello psicologo presente in tutte le strutture scolastico, di ogni ordine e grado. E infine è importante la comunicazione, decisamente salutotropa per i minori, tra scuola e famiglia».

Ci sono richieste di aiuto da parte di chi sta pensando al suicidio?
«Gran parte delle volte si. Teniamo conto inoltre che gran parte delle persone che tentano il suicidio non sono necessariamente soggetti psichiatrici, al contrario sono persone sane che vivono una condizione di dolore mentale talmente forte da non essere in grado di fronteggiare».

Quali sono i segnali di allarme a cui prestare attenzione?
«Ve ne sono molti, difficile riunirli qui, tuttavia dobbiamo stare attenti all’isolamento, al cambiamento improvviso di abitudini e di umore, irritabilità immotivata, disturbi nel ciclo sonno veglia, e molti altri. L’Osservatorio Violenza e Suicidio ha una sede in quasi tutte le regioni d’Italia, proprio per fornire assistenza e supporto a tutti coloro che sono convolti non solo nel fenomeno suicidario ma anche in qualsiasi forma di violenza. Svolgiamo indagini sul territorio, informazione attraverso congressi e formazione attraverso corsi, anche nelle scuole. In tal senso avere una preparazione specifica, non solo per i professionisti, ma anche per tutti, insegnanti e genitori compresi, può significare essere in grado di saper cogliere in tempo i segnali di allarme e a volte questo può fare anche la differenza tra la vita e la morte».

Ci fa pensare molto il cosiddetto Effetto Werther, il fenomeno per cui la notizia di un suicidio a catena ne provoca altri. Cosa ne pensa lei dott. Callipo? Cosa spinge una persona a scegliere la morte al posto della vita?
«In relazione all’Effetto Werther abbiamo svolto un convegno insieme all’ordine dei giornalisti della Campania, e ne faremo altri, proprio per la gestione della notizia suicidaria. Oggi l’Effetto Werther è cambiato, non è più quello, o meglio non è più solo quello che leggiamo sui libri, la rapida accelerazione dell’uso dei social ha rivoluzionato i termini specifici dell’effetto Werther, su questo ci sarebbe tanto da dire. Ne ho parlato nel mio libro “Il Suicidio”, edito dalla Franco Angeli, dove spiego bene questo aspetto, oggi poco individuato».

A chi appartiene allora la nostra vita? In modo complicato o in modo semplice, la vita sarebbe bello anche solo conservarla, difenderla, assaporarla o, più semplicemente, accettarla. (dott. Saverio Costantino, psicologo psicoterapeuta e della dott.ssa Marilù Liso, Psichiatra)

venerdì 1 Marzo 2024

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